Al viale della Vittoria di Agrigento, a un certo punto della Passeggiata ci si può imbattere in una lapide posata ai piedi di una palma. E' una lastra di marmo posta sul luogo dell'agguato al commissario Cataldo Tandoy – e dove accidentalmente fu colpito a morte il giovanissimo Ninni Damanti. E' una lapide molto poco commemorata, dove raramente si nota un fiore o un qualsiasi segno votivo.
Forse perché l'omicidio del capo della mobile di Agrigento è stato un caso eclatante e al contempo molto imbarazzante, un crimine che nel suo processo, storico più che giuridico, incluse l'errore giudiziario, il favoreggiamento delle istituzioni, il processo e la condanna mediatica, lo scontro politico e perfino il depistaggio inquisitorio.

Una struttura pirandelliana
Michele Guardì si inabissa in documenti, libri e giornali degli anni sessanta che si occuparono dell'agguato al commissario. Ne riemerge con una pièce teatrale di ricerca e di immaginazione, fra prove riscontrabili e deduzioni personali. E inverte il canone del metateatro pirandelliano. I sei personaggi in cerca di autore che assillano Luigi Pirandello – la cui effige quasi votiva guarda alla platea del teatro – e implorano il demiurgo per essere portati in scena, con l'autore del Il caso Tandoy sono restii ad essere richiamati in vita e in “piazza”.
Cedono solo alla lusinga di consegnare la propria testimonianza dei fatti, di narrare la loro versione, quella originale. Così nella soffitta dove l'autore mette su carta il copione, si apre il sipario e rivivono il commissario Tandoy e la sua bellissima moglie Leila, il procuratore incaricato dell'inchiesta e il suo cancelliere, il dottor La Loggia e la consorte Danika.

GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA
Il processo teatrale: la certezza ottusa e la lungimiranza del dubbio
Il procuratore imputa dell'omicidio il dottore La Loggia, direttore dell'ospedale psichiatrico di Agrigento, amante della moglie del poliziotto e pertanto uomo di scarsa moralità e quindi adeguato assassino. Assieme al medico, fratello dell'eminente e potente uomo politico della Democrazia Cristiana, viene arrestata anche la moglie fedifraga.
Accusa, movente e modalità di esecuzione si basano sulle lettere anonime pervenute in questura e sul bigottismo ardente dell'inquirente, supportato dalla pagine dei giornali locali e nazionali che ne scrivono la sentenza di condanna, prima ancora di quella emessa dalla corte di assise.

Michele Guardì insiste nella foga bigotta del magistrato, nelle argomentazioni dei suoi sillogismi speciosi, ma intanto dissemina piccoli segnali di motivazioni alternative al delitto passionale: il commissario viveva oltre le proprie possibilità, frequentava amicizie discutibili fino a poco tempo prima dell'imminente trasferimento a Roma. L'autore lancia segnali di altri possibili moventi e ha ragione: il movente passionale e le prove velleitarie raccolte dal procuratore di Agrigento non resistono alla disamina del processo di appello la cui sentenza assolve gli amanti.
Fra nuovi indiziati e nuove inchieste si arriverà, dopo circa quindici anni, agli autori del delitto che avranno un nome e una condanna che solo uno, un morto di fame, sconterà veramente.

Uno spettacolo coinvolgente fondato su narrazione e dialettica
Pilastro della messinscena è il procuratore, – splendidamente interpretato da Giuseppe Manfridì -, il rappresentante dell'accusa, l'inquisitore dal giudizio ineffabile, colui che individua l'assassino e cerca le prove della colpevolezza, in una probatio diabolica indiscutibile.
Michele Guardì gli assegna reiterate requisitorie a ribadire la motivazione puritana della sua inquisizione, per giustificare l'inettitudine dal magistrato, a scansare la malafede del depistaggio che forse nella realtà esisteva, seppur in scena affermerà che gli è impedito “salire certi scalini”. Ma le repliche motivazionali appesantiscono la rappresentazione, soprattutto nella prima parte, e per qualche attimo annoiano.

Gianluca Guidi, che interpreta l'autore – lo stesso Guardì – svolge il suo ruolo con vivacità a volte eccessiva ma con convinzione e mettendo molta gradita ironia nella sua difesa degli imputati e della logica di giudizio: razionale uomo moderno che vede – ahimè – la reiterazione attuale dei barbari processi mediatici e la riproposizione di una magistratura miope e corporativa.
Il bravo Roberto Iannone impersona un commissario Tandoy serafico, mai vendicativo, anzi. Ammonisce sugli sbagli in vita, sulle occasioni perdute, sulle ricchezze effimere: una coscienza esistenziale critica.
Lo psichiatra dottor La Loggia – l'ottimo Gaetano Aronica - nel riprendere la direzione nel suo ospedale psichiatrico, si premura di far affiggere sul muro una scritta: Non tutti ci sono e non tutti lo sono. Il riferimento è ai pazzi rinchiusi in manicomio ma potremmo anche pensare che in questa messinscena de Il caso Tandoy, “non tutti lo sono e non tutti ci sono” si riferisca a vittime e colpevoli.
Al calar del sipario applausi meritati anche per gli attori Antonio Rampino, Marco Landola e le brave e belle Caterina Milicchio, Marcella Lattuca e Noemi Esposito.

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Visto il 12/11/2022
al teatro Pirandello di Agrigento (AG)
